Milano.
un viaggio in treno ieri con L scandito dalle chiacchiere, le risate, la settimana enigmistica, i giornaletti di moda e pettegolezzi e le spiegazioni ai vicini delle mie preferenze di genere, piuttosto che i miei soliti viaggi solitari di qualche tempo fa a pensare emozionata a quando avrei visto M, a quando ci saremmo finalmente guardati negli occhi e baciati, e a quanti minuti avremmo potuto stare insieme.
Una Milano soleggiata, e bella, ma strana senza di lui. e mi è tornata alla mente la giornata di luglio, io con indosso i pantaloni orlati la notte prima perchè-tanto-non-riesco-a-dormire, M che mi prende per mano e insieme giriamo per il centro, le librerie, e sulle palle del toro. che porta fortuna.
poi ci sediamo sui gradini del Duomo e non ci diciamo nulla. ma tanto non ce n'è bisogno, lo sappiamo già.
E l'aria di settembre, con quel suo cielo azzurro intenso, che sembra una colata di tempera color ciano, mi rende malinconica.
Arriviamo a Parma, lo stesso colore di cielo che incanta, sotto il quale io e F mangiamo un gelato allo yogurt con frutta, miele, cioccolato bianco e croccante, innamorate di questo settembre e della vita. e della nostra città.
E il duomo è illuminato di una luce bellissima, che -again- solo questo settembre sa regalare.
e, suddenly, mentre ci stavamo alzando per andarcene, due ragazzi seduti a fianco a noi "ma no...già ve ne andate?". e aperitivo, e cena insieme. tutti insieme.
C'est beau la vie.
Nuovo titolo, nuova vita. my brand new blog, dopo un anno di erasmus a rennes la mia vita ricomincia da qui. dalle scarpe, una passione ereditata da mia nonna, e dai piedi, il contatto più semplice e genuino per sentire il mondo. e viverlo.
samedi, septembre 22, 2007
lundi, septembre 17, 2007
Once upon a time...
...una ragazza partiva per Rennes. quella ragazza sono io.
anche se non amo particolarmente gli anniversari (ma se un mio ipotetico fidanzato se ne dimentica sono cazzi amari per lui) mi fa un certo effetto pensare che esattamente un anno fa stavo partendo per il mio erasmus, con pochissime valigie ma con un sacco di speranze, progetti e nessuna paura.
Del giorno della partenza mi ricordo in particolare due cose:
la prima è che ho iniziato a fare i bagagli la mattina stessa, forse pensavo di andare in gita come alle elementari a Ravenna a vedere il mausoleo di Teodorico, chi lo sa, dopo essere rincasata alle 4 passate di ritorno dal matrimonio di G e L, bagnato e bellissimo, e che mettevo in valigia cose a caso o quasi. giuro che all'alba di 365 giorni non ho ancora idea di cosa mi frullasse in questa pazza testolina;
la seconda è la merenda, anche se chiamarla merenda è riduttivo visto che c'era da sfamare un esercito per almeno due mesi, a San Giusto, tutti e otto insieme. quando siamo arrivati e finalmente le mie mamme si sono conosciute è stato un momento magico, poi la tavola imbandita da M ha aumentato il coefficiente magico del pomeriggio: cioccolata calda fatta in casa, panna fatta in casa -la più buona che io abbia mai mai mai mangiato-, crostini, the, salame piccante, e una scatola di biscotti al cioccolato per me da portare in Francia per le mie colazioni.
E, per la cronaca, le mie coinquiline della prima settimana li hanno fatti fuori in tempi record.
Un anno fa iniziavo un percorso, mi levavo tante soddisfazioni e voglie solo con l'idea della partenza, e avevo così tanta voglia di andarmene che non realizzavo nemmeno a cosa stavo andando incontro. motivo per cui ho fatto i bagagli l a mattina della partenza, credo. smania.
Rennes non è stata una parentesi, è parte integrante della mia vita, sono cresciuta e ho vissuto ogni momento intensamente.
le 10 volte odierne in cui bussavo alla porta di C e I
la mia prima indimenticabile impepata di cozze con raccolta sughetto finale
la mensa
la sortie thabor con N e la nostra gara di foto (miseramene persa)
i ritorni a casa
il viaggio in treno l'antivigilia di Natale, le mie due bionde piccole amiche e D con i suoi dolci sorrisi. avrei fatto volentieri colazione a Roma con te
il concorso fotografico e la premiazione in Municipio. il mio primo discorso in pubblico. in francese
Cirefe
i racconti esilaranti a C e I delle mie (dis)avventure sentimentali
le polacchine
il giorno all'ufficio sanitario quando ho conosciuto A. accento americano e occhi dolcissimi
il mio compleanno, noi cinque come una famiglia
la festa della donna al St Melaine
picchiare il ciclista per ore con la mia pesciolina
G, la sua tenerezza e il brillio dei suoi occhi quando scarta le caramelle
P e le nostre notti insieme, la nostra amicizia
J, Troy in inglese con i sottotitoli in spagnolo e i giri mano nella mano. "oui, chef"
K e le lunghe disquisizioni filosofiche su amore e amicizia
K e P e le nostre notti insieme
le telefonate con le mie stelline lontane ma luminose e vicine
la pizzeria Mondello
il viaggio con i bubini, i campi di colza e Stars sur glace
l'autobus delle 8.12 che arriva alle 8.12
N che dorme sul divano
Attention à la marche, insalatona e leffe
la notte in cui ho creato questo blog
I e il the pomeridiano
la cartolina di D
la moutarde à l'ancienne e gli hot dog da N
all'ospedale da sola, l'operazione e il protossido d'azoto
il cinema, finalmente in lingua originale
P e le sue appassionate/appassionanti lezioni
la pioggia e i cieli bretoni
il lurido
MA, compagna di banco e amica
Battiato che presenta il suo nuovo film
e mi devo fermare da qualche parte, o potrei proseguire per chilometri, giorni interi a scrivere della mia bretagna. questa la mia Rennes.
oggi camminando sullo stradone ho riconosciuto un profumo buonissimo, le prime castagne cadute, i ricci ancora chiusi a terra, e io mi metto a raccogliere le castagne più belle per darle ai miei amici per preservarli dai malanni autunnali e i passanti che mi guardano in modo strano. chissà perchè. un profumo che sa di ritorno a casa, quando abitavo ancora in via R.
ogni via ha un suo odore, rue d'E profumava di freddo anche quando faceva caldo. ma era casa mia, e la strada del ritorno era stupenda, sempre.
anche se non amo particolarmente gli anniversari (ma se un mio ipotetico fidanzato se ne dimentica sono cazzi amari per lui) mi fa un certo effetto pensare che esattamente un anno fa stavo partendo per il mio erasmus, con pochissime valigie ma con un sacco di speranze, progetti e nessuna paura.
Del giorno della partenza mi ricordo in particolare due cose:
la prima è che ho iniziato a fare i bagagli la mattina stessa, forse pensavo di andare in gita come alle elementari a Ravenna a vedere il mausoleo di Teodorico, chi lo sa, dopo essere rincasata alle 4 passate di ritorno dal matrimonio di G e L, bagnato e bellissimo, e che mettevo in valigia cose a caso o quasi. giuro che all'alba di 365 giorni non ho ancora idea di cosa mi frullasse in questa pazza testolina;
la seconda è la merenda, anche se chiamarla merenda è riduttivo visto che c'era da sfamare un esercito per almeno due mesi, a San Giusto, tutti e otto insieme. quando siamo arrivati e finalmente le mie mamme si sono conosciute è stato un momento magico, poi la tavola imbandita da M ha aumentato il coefficiente magico del pomeriggio: cioccolata calda fatta in casa, panna fatta in casa -la più buona che io abbia mai mai mai mangiato-, crostini, the, salame piccante, e una scatola di biscotti al cioccolato per me da portare in Francia per le mie colazioni.
E, per la cronaca, le mie coinquiline della prima settimana li hanno fatti fuori in tempi record.
Un anno fa iniziavo un percorso, mi levavo tante soddisfazioni e voglie solo con l'idea della partenza, e avevo così tanta voglia di andarmene che non realizzavo nemmeno a cosa stavo andando incontro. motivo per cui ho fatto i bagagli l a mattina della partenza, credo. smania.
Rennes non è stata una parentesi, è parte integrante della mia vita, sono cresciuta e ho vissuto ogni momento intensamente.
le 10 volte odierne in cui bussavo alla porta di C e I
la mia prima indimenticabile impepata di cozze con raccolta sughetto finale
la mensa
la sortie thabor con N e la nostra gara di foto (miseramene persa)
i ritorni a casa
il viaggio in treno l'antivigilia di Natale, le mie due bionde piccole amiche e D con i suoi dolci sorrisi. avrei fatto volentieri colazione a Roma con te
il concorso fotografico e la premiazione in Municipio. il mio primo discorso in pubblico. in francese
Cirefe
i racconti esilaranti a C e I delle mie (dis)avventure sentimentali
le polacchine
il giorno all'ufficio sanitario quando ho conosciuto A. accento americano e occhi dolcissimi
il mio compleanno, noi cinque come una famiglia
la festa della donna al St Melaine
picchiare il ciclista per ore con la mia pesciolina
G, la sua tenerezza e il brillio dei suoi occhi quando scarta le caramelle
P e le nostre notti insieme, la nostra amicizia
J, Troy in inglese con i sottotitoli in spagnolo e i giri mano nella mano. "oui, chef"
K e le lunghe disquisizioni filosofiche su amore e amicizia
K e P e le nostre notti insieme
le telefonate con le mie stelline lontane ma luminose e vicine
la pizzeria Mondello
il viaggio con i bubini, i campi di colza e Stars sur glace
l'autobus delle 8.12 che arriva alle 8.12
N che dorme sul divano
Attention à la marche, insalatona e leffe
la notte in cui ho creato questo blog
I e il the pomeridiano
la cartolina di D
la moutarde à l'ancienne e gli hot dog da N
all'ospedale da sola, l'operazione e il protossido d'azoto
il cinema, finalmente in lingua originale
P e le sue appassionate/appassionanti lezioni
la pioggia e i cieli bretoni
il lurido
MA, compagna di banco e amica
Battiato che presenta il suo nuovo film
e mi devo fermare da qualche parte, o potrei proseguire per chilometri, giorni interi a scrivere della mia bretagna. questa la mia Rennes.
oggi camminando sullo stradone ho riconosciuto un profumo buonissimo, le prime castagne cadute, i ricci ancora chiusi a terra, e io mi metto a raccogliere le castagne più belle per darle ai miei amici per preservarli dai malanni autunnali e i passanti che mi guardano in modo strano. chissà perchè. un profumo che sa di ritorno a casa, quando abitavo ancora in via R.
ogni via ha un suo odore, rue d'E profumava di freddo anche quando faceva caldo. ma era casa mia, e la strada del ritorno era stupenda, sempre.
lundi, septembre 03, 2007
I cosiddetti sani - la patologia della normalità
"Queste strane cose chiamate occhi, che esistono per formare nel volto una lieve e piacevole depressione, in lui sono malate di modo che gli disturbano il cervello. Sono molto dilatate, hanno le ciglia, con palpebre che si muovono; di conseguenza, il suo cervello è in uno stato costante d'irritazione e di distrazione."
Così viene diagnosticata la malattia della vista a un giovane smarritosi in Malesia da un medico di una tribù dove da molte generazioni tutti gli individui sono affetti da cecità congenita. era il 1925, è "Il paese dei ciechi" di H.G. Wells.
Sto leggendo questo libro (quello del titolo, non quello di Wells) di Fromm, e mi ha colpito molto la teoria dell'adattamento, che si basa implicitamente su alcune premesse:
1) ogni società in quanto tale è normale:
2) chi non corrisponde al tipo di personalità gradito alla società deve considerarsi psichicamente malato;
3) il sistema sanitario, in ambito psichiatrico e psicoterapeutico, ha lo scopo di ricondurre il singolo individuo al livello dell'uomo medio, indipendentemente dal fatto che questo sia cieco o vedente (per rifarci al racconto di Wells).
Conclusione: l'unica cosa che conta è che l'individuo sia adatto, che non turbi il contesto sociale.
Ricordo perfettamente il brivido che mi ha percorso la schiena mentre leggevo questa frase,
in un periodo poi in cui sovente mi interrogo sulla cosiddetta "normalità".
rabbrividivo perchè, in soldoni, io mi pongo circa queste domande:
essere normali significherebbe essere adatti alla società in cui viviamo?
significherebbe essere conformi a quello che la società si aspetta da noi in modo da non turbarne l'equilibrio?
praticamente non possiamo essere una ciliegia in un minestrone di piselli perchè...stona?
poi leggo un altro po' e arrivo qua:
"Ogni società, grazie alle sue istituzioni culturali, al suo sistema scolastico, alle sue convinzioni religiose, ecc., cerca in ogni modo di formare un tipo di personalità che aspiri a fare ciò che deve, e che, oltre a volere fare quanto è necessario, desideri esercitare con zelo il ruolo che la società, per potere funzionare senza attriti, gli ha assegnato."
E riecco il brivido, che stavolta mi percorre la schiena su e giù due volte.
vedo la società come una specie di Grande Sorella cattiva, che ci vuole uniformare e fare tutti uguali perchè così non possiamo contraddirla, rovinarla, incrinarla o stonare il suo perfetto mélange di colori pastello. brrrrrrrr.
Da quando sono poco più che bambina la normalità è un concetto che ritengo banale, insulso, direi addirittura stupido. anzi, penso che la normalità non esista per niente, eppure è un concetto astratto che mi affascina tantissimo perchè sento dire la parola "normale" mgliaia di volte al giorno e devo ammettere che, anche nello sforzo di cancellare quella parola dal mio vocabolario, ogni tanto esce anche dalla mia bocca.
"ma cosa fai, giri per casa nudo?! non sei normale!"
"hai tradito dopo 10 anni perchè il matrmonio ormai è routine? non preoccuparti, è normale"
"amo mozzarella e marmellata. oddio, sarò poco normale?!"
normale, normale, normale. cosa diavolo è la normalità??
anche per rispondere a questa domanda sto leggendo il libro di Fromm, che ovviamente non mi darà nessuna risposta precisa ma mi butterà tanto fumo negli occhi, a suon di paroloni e grosse teorie dai nomi possibilmente astrusi.
Io sto usando Fromm e teorie sociologiche di rilievo per parlare di una normalità cittadina, quotidiana, sicuramente abusata nelle sue forme grammaticali più che in quelle reali, ammesso che ne abbia una o più d'una. insomma, bref, devo ammettere che quando gli altri mi dicono che non sono "normale" (magari perchè abbino cibi convenzionali in modi non convenzionali, o perchè mi agghindo con fiorelloni qua e là, o perchè scrivo solo con una penna e deve essere quella penna, o perchè nell'astuccio tengo tutte le biro con la punta rivolta verso destra, o perchè voglio che i limoni vengano tagliati esclusivamente a metà e mai per il lungo), non posso evitare di sentirmi tutta tronfietta, orgogliosa e fiera, perchè in fondo per me la normalità di cui si sente tanto parlare altro non è che quello che fa la maggioranza delle persone, quindi il non essere normali è solo essere diversi, distinguersi per una ragione o per l'altra dalla maggioranza. essere particolari. essere speciali.
una chiazza arcobaleno su fondo monocromo.
però, pnsandoci ben bene, che senso ha sentirmi fiera di sfuggire ad un'etichetta che designa un concetto per me inesistente?!
sono normale?
Così viene diagnosticata la malattia della vista a un giovane smarritosi in Malesia da un medico di una tribù dove da molte generazioni tutti gli individui sono affetti da cecità congenita. era il 1925, è "Il paese dei ciechi" di H.G. Wells.
Sto leggendo questo libro (quello del titolo, non quello di Wells) di Fromm, e mi ha colpito molto la teoria dell'adattamento, che si basa implicitamente su alcune premesse:
1) ogni società in quanto tale è normale:
2) chi non corrisponde al tipo di personalità gradito alla società deve considerarsi psichicamente malato;
3) il sistema sanitario, in ambito psichiatrico e psicoterapeutico, ha lo scopo di ricondurre il singolo individuo al livello dell'uomo medio, indipendentemente dal fatto che questo sia cieco o vedente (per rifarci al racconto di Wells).
Conclusione: l'unica cosa che conta è che l'individuo sia adatto, che non turbi il contesto sociale.
Ricordo perfettamente il brivido che mi ha percorso la schiena mentre leggevo questa frase,
in un periodo poi in cui sovente mi interrogo sulla cosiddetta "normalità".
rabbrividivo perchè, in soldoni, io mi pongo circa queste domande:
essere normali significherebbe essere adatti alla società in cui viviamo?
significherebbe essere conformi a quello che la società si aspetta da noi in modo da non turbarne l'equilibrio?
praticamente non possiamo essere una ciliegia in un minestrone di piselli perchè...stona?
poi leggo un altro po' e arrivo qua:
"Ogni società, grazie alle sue istituzioni culturali, al suo sistema scolastico, alle sue convinzioni religiose, ecc., cerca in ogni modo di formare un tipo di personalità che aspiri a fare ciò che deve, e che, oltre a volere fare quanto è necessario, desideri esercitare con zelo il ruolo che la società, per potere funzionare senza attriti, gli ha assegnato."
E riecco il brivido, che stavolta mi percorre la schiena su e giù due volte.
vedo la società come una specie di Grande Sorella cattiva, che ci vuole uniformare e fare tutti uguali perchè così non possiamo contraddirla, rovinarla, incrinarla o stonare il suo perfetto mélange di colori pastello. brrrrrrrr.
Da quando sono poco più che bambina la normalità è un concetto che ritengo banale, insulso, direi addirittura stupido. anzi, penso che la normalità non esista per niente, eppure è un concetto astratto che mi affascina tantissimo perchè sento dire la parola "normale" mgliaia di volte al giorno e devo ammettere che, anche nello sforzo di cancellare quella parola dal mio vocabolario, ogni tanto esce anche dalla mia bocca.
"ma cosa fai, giri per casa nudo?! non sei normale!"
"hai tradito dopo 10 anni perchè il matrmonio ormai è routine? non preoccuparti, è normale"
"amo mozzarella e marmellata. oddio, sarò poco normale?!"
normale, normale, normale. cosa diavolo è la normalità??
anche per rispondere a questa domanda sto leggendo il libro di Fromm, che ovviamente non mi darà nessuna risposta precisa ma mi butterà tanto fumo negli occhi, a suon di paroloni e grosse teorie dai nomi possibilmente astrusi.
Io sto usando Fromm e teorie sociologiche di rilievo per parlare di una normalità cittadina, quotidiana, sicuramente abusata nelle sue forme grammaticali più che in quelle reali, ammesso che ne abbia una o più d'una. insomma, bref, devo ammettere che quando gli altri mi dicono che non sono "normale" (magari perchè abbino cibi convenzionali in modi non convenzionali, o perchè mi agghindo con fiorelloni qua e là, o perchè scrivo solo con una penna e deve essere quella penna, o perchè nell'astuccio tengo tutte le biro con la punta rivolta verso destra, o perchè voglio che i limoni vengano tagliati esclusivamente a metà e mai per il lungo), non posso evitare di sentirmi tutta tronfietta, orgogliosa e fiera, perchè in fondo per me la normalità di cui si sente tanto parlare altro non è che quello che fa la maggioranza delle persone, quindi il non essere normali è solo essere diversi, distinguersi per una ragione o per l'altra dalla maggioranza. essere particolari. essere speciali.
una chiazza arcobaleno su fondo monocromo.
però, pnsandoci ben bene, che senso ha sentirmi fiera di sfuggire ad un'etichetta che designa un concetto per me inesistente?!
sono normale?
Inscription à :
Articles (Atom)