Domenica mattina. Faccio le pulizie e ascolto il podcast di Selvaggia Lucarelli, dopo aver tanto rimandato.
Sapevo che avrei trovato parole e situazioni che mi avrebbero risuonato dentro come campane di chiesa in un giorno di festa.
E infatti eccole lì: scoprire cos'è la chimica, volere una dose, l'ordine maniacale, il controllo ossessivo, la manipolazione, il tappo dell'ammorbidente avvitato male.
La mia grande, grandissima fortuna, è stata solo che queste cose appartenevano a persone diverse. Altrimenti non mi sarei mai salvata.
La chimica, quella non si cancella, e infatti è stata la dipendenza più dura da cui liberarmi. Mi ricordo ancora il suo odore la prima sera che ci siamo conosciuti, non me lo scorderò mai. È stato così inebriante che lui ha iniziato a parlare, e che io ricordi è stata una delle poche pochissime volte in quattro anni che ha parlato di lui, e io non ho ascoltato una sola parola, talmente ero rapita da quei capelli a caso, quella maglia grigia un po' vissuta e quel sorriso sornione da chi sa benissimo che effetto ti sta facendo, e gongola. Mezz'ora dopo eravamo su una panchina a baciarci come i ragazzini, e mezz'ora dopo ancora io ero in piedi contro la mia macchina con il suo corpo schiacciato sul mio e il suo odore addosso. La mattina dopo, quando mi sono svegliata, ero sconvolta. Sapevo benissimo di esserci caduta dentro con tutte le scarpe. E sì, mi sono bucata per quattro anni, se vogliamo dire così, perché ogni messaggio, ogni incontro fugace, erano una dose, il cui effetto durava pochissimo, e già avevo bisogno di averne ancora. Ci vedevamo poco, lui era sfuggente, non abbiamo mai avuto una "storia" vera e propria. Era una relazione sì, ma una relazione completamente diversa da tutte le altre, e questo per me la rendeva speciale. Abitando in due città diverse non avevamo modo di incontrarci per caso, per vederci dovevamo metterci d'accordo. Ho detto no tante volte, una volta ho detto no per quasi un anno, fiera di essere riuscita finalmente ad allontanarmi da questa situazione assurda, che mi faceva stare bene un minuto e male tre giorni. Poi un giorno, fiera di questo traguardo, sono andata al suo locale, e gliel'ho detto, non ero certa di vederlo, perché lui era tutto un forse-nonloso-dipende, ma abbastanza sicura. Ed ero anche abbastanza sicura che avrei gestito la situazione alla grande. Ero seduta al bancone con una mia amica quando è entrato. Si era anche messo il mio maglione preferito. Quando ci siamo guardati mi è bastato un attimo per capire che ero ancora una drogata, volevo una dose, la volevo a tutti i costi. Non esisteva più niente in quel momento, se non lui. Gli ho sfiorato il maglione, e una scarica elettrica mi ha attraversato tutto il corpo, mi è quasi mancato il respiro. "La chimica non si cancella", mi dirà qualche giorno dopo. Lui è sceso per andare in magazzino, io non l'ho seguito, e per farlo ho combattuto con ogni fibra del mio essere. Due giorni dopo però, eravamo insieme. Ci ero ricascata, per l'ennesima volta. E me la raccontavo, e la raccontavo alle mie amiche che non mi hanno mai creduto, neanche per un minuto. Mi va bene così, dicevo, riesco a gestirla, stiamo bene quando siamo insieme e per il resto fa lo stesso, non mi importa se non mi chiama, se non risponde, se scrive quando vuole, se non facciamo progetti e se non usciamo insieme. Balle. Le frequentazioni che avevo nel frattempo erano storie normali, conoscenze con ragazzi carini, a cui però non davo modo di entrare davvero in contatto con me, perché non volevo permettere a nessuno di farmi del male. Non scoprivo il fianco per paura di essere ferita. Eppure con lui soffrivo come un cane, ma era lo Sturm und Drang, era struggente, era un dolore esplosivo, ed era così dannatamente, stupidamente romantico.
Poi un giorno, un sabato, mi ha scritto questo ragazzo su Instagram, commentando una foto dei miei piedi. Io ho risposto, abbastanza gentilmente, poi dopo un paio di battute ho tirato fuori la frase da copione, ovviamente falsa, mi dispiace ma non sono su piazza. Lui ha prontamente ribattuto, guarda, ti ho scritto perché sei una ragazza interessante, ti seguo perché sei amica di un'amica, non era un gancio. E no certo, mi scrivi per dirmi che bei piedi, mica che bella mostra sei andata a vedere. Vabbè, ho fatto finta di crederci, salutato e sono passata oltre. La settimana dopo la mia droga mi ha scritto di nuovo. sono in città, ci vediamo?
La mattina stessa, mi ha scritto anche il gancio dei piedi, proponendomi un caffè, anche lui in città. Io che sono fissata con i segni dell'universo (il caso non esiste) ho pensato ecco, è l'occasione giusta per smettere. Ho quindi detto no alla mia dose, e sì al caffè. Il caffè si è poi tramutato in pranzo e si è rivelato inaspettatamente piacevole, lui ha tenuto il palco in maniera ineccepibile, sempre con la battuta pronta, sempre con la situazione in mano, reattivo. Io sono arrivata dritta da una lezione di aquafitness, con i capelli ancora bagnati e probabilmente la ricrescita. Non mi interessava niente. Durante il pranzo ho notato alcune piccolezze che lì per lì non mi hanno detto nulla, ma si sono depositate come sassolini da qualche parte. Mi è rimasta solo una sensazione di rigidità addosso, ma mi è passata velocemente quando mi sono rituffata in vasca. Il giorno dopo, domenica, mi stavo dando lo smalto al sole sul terrazzo e caffè mi ha mandato un messaggino, due battute e ci siamo messi d'accordo per andare a pranzo in collina. Ho prenotato in un posto che conoscevo ma in cui non ero mai andata, ho messo un abito leggero, i sandali, non avevo ancora fatto la tinta, e lo smalto era un po' sbavato perché non avevo fatto in tempo a sistemarlo. Ma chissenefrega, ho pensato. O forse neanche ci ho pensato. Il ristorante che avevo scelto era molto più chic di quello che credevo, io ero tranquilla ma lui era stranamente spavaldo e a suo agio, come fosse abituato a frequentare certi ambienti. E infatti così era, lo scoprirò poco più avanti. Scoprirò che era un manager, che lavorava all'estero, che era ricco e che aveva una casa enorme, e bellissima. Perfetta. Non come me, che al ristorante quella domenica mi aveva fatto notare sia la ricrescita che lo smalto sbavato. Lì ogni cosa era al suo posto, e c'era un posto per ogni cosa. Abbiamo iniziato a frequentarci subito, lui veniva a casa mia o io andavo a casa sua appena possibile quando era in Italia, mi scriveva ogni momento possibile, mi mandava un sacco di messaggi vocali. Quando ero a casa sua dovevo rispettare le sue regole, alcune erano esplicite, altre no. Io ero più ribelle, godevo anche dell'imperfezione delle cose, ero più libera, dagli schemi e dai giudizi. Questa cosa da una parte gli piaceva molto, me la invidiava, e dall'altra lo faceva andare giù di testa. Mi diceva che non ero una gran figa, ma che avevo una gran testa. A me sembrava addirittura un complimento. Sono stati mesi che sono sembrati anni, perché vissuti molto intensamente. Mi aveva anche detto, al secondo appuntamento, sappi che io ti tradirò. Mi aveva detto facciamo un figlio, mi aveva detto magari mi propongono di andare a lavorare in America, andiamo insieme. Io avevo detto va bene a tutto. Ero così abituata a condurre io, che avere lui che guidava la mia vita mi andava benissimo. Mi portava a cena in ristoranti costosi, mi faceva regali altrettanto costosi, mi aveva persino spedito un libro in ufficio, con una dedica, mentre era all'estero. Poi mi faceva pesare se al supermercato compravo una senape di marca, o se al ristorante mangiavo tanto, dicendomi, quanto mi costi. Mi umiliava, e poi in un attimo mi riportava in alto. Fiutavo il pericolo, quei sassolini che si erano depositati durante il primo pranzo iniziavano a muoversi e a dare fastidio. Tanto che una sera ho detto alle mie amiche di questa sensazione e le ho pregate di fare una cosa, di avvisarmi se mi avessero vista cambiare. Avvisatemi, prima che sia troppo tardi. Avevo riconosciuto i meccanismi, anche se non mi erano ancora del tutto chiare le conseguenze. Un giorno mentre ero a casa sua e guardavamo una partita di non mi ricordo quale sport, un giocatore ha fatto una mossa sbagliata, e lui ha esultato, perché era della squadra avversaria. Io l'ho guardato stranita e gli ho chiesto se fosse contento, e lui mi ha detto certo, prima i fallimenti degli altri, poi i miei successi. Mi si è gelato il sangue nelle vene, l'ho guardato con disprezzo, e lui se n'è accorto. Sono rimasta chiusa nel mio silenzio per tutto il resto della partita. Non mi sentivo bene, volevo tornare a casa, nella mia casa piccola, calda, e accogliente. Lui poi è dovuto ripartire per lavoro, e io mi sono sentita sollevata. Gli ho detto che avevo bisogno di un po' di tempo e di spazio, perché mi sentivo soffocare. Se non rispondevo ai suoi cinque minuti di vocale nel giro di mezz'ora se la prendeva, non importava che io fossi in ufficio e stessi lavorando. Era diventato un lavoro, dovevo pesare ogni singola parola e ogni gesto, non mi sentivo più libera neanche di usare i social. Ho deciso di lasciarlo, è stato difficile anche quello, ho ricevuto insulti, poi un messaggio ragionato e molto professionale, in cui diceva hai ragione, non siamo innamorati. Era tutto calcolato. Mesi dopo mi ha cercato di nuovo, mi ha lasciato un libro sotto il tergicristallo della macchina, parcheggiata vicino all'ufficio, il giorno di San Valentino. Poi mi ha chiamato e chiesto di vederci per un caffè, parlando di amore incondizionato. Ho rifiutato. Mi ha scritto altri messaggi, a cui non ho mai risposto.
Stamattina, ascoltando il podcast, ho pensato solo una cosa: meno male.